compleanno di Sidi (Senegal) e Libero (Valdarno)
Apro le ciglia sulla mia mano, sulle linee e la lunghezza delle dita e vedo quella del nonno.
Con la mente piena d’acqua che straripava negli occhi, lui sussultava come un cieco a cui appaiono dei lampi. Metteva la sua mano nella mia e per un attimo mi vedeva. Muoveva le labbra come digrignando i denti, come tremando di freddo. Si concentrava per articolare una parola, un complimento, una richiesta. Ma la voce non partiva, non obbediva, tradiva quell’uomo che tante volte doveva averla smorzata in gola, per proteggersi. Libero in un epoca in cui si alzavano i manganelli e le spranghe, in cui anche il muratore vuole il figlio ingegnere. Tempi di orologi buoni per la domenica, di gente per bene che cerca la pace, dopo una guerra di scarpe di cartone in Africa e la prigionia inglese. Libero di amare una mamma e un babbo quando il pane faceva da companatico al semelle[1], di sposare una donna schiva. Libero per ottant’anni e infine approdare su quel letto all’ospedale.
“Chi sei”
Vittoria immensa, il suono articolato e sputato.
Scandirgli il mio nome e vederlo annuire, distendersi. Sentire che riconosceva chi ero e che c’ero, attaccarsi alla mia mano con quel braccio infilzato dalla flebo. E capire che mi svelava un segreto: quella mano la affidava a me. Me l’aveva già lasciata la combinazione delle eredità genetiche, stesso pollice, stesso mignolo storto, stessa proporzione. Me ne accorgevo solo in quel momento, alle due del pomeriggio. L’ultimo messaggio del nonno, la mia mano.
[1] Tipo di pane all’olio.
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